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Perassi, Giuseppe

Barge, 1836,
Intra, 12 gennaio 1903

Per trentadue anni medico primario dell'ospedale San Rocco di Intra. Consigliere comunale, assessore, consigliere della Banca Popolare di Intra, vice presidente della sezione Verbano del Club Alpino Italiano. Padre del giurista Tomaso.

[...] É doveroso ricordare brevemente la sua vita operosissima. Giuseppe Perassi era un figlio di quel forte Piemonte che tanti uomini illustri ha dato alla patria. Ebbe modesti natali a Barge nella provincia di Cuneo, e fin da giovinetto addimostrò un ingegno svegliatissimo, una ferrea tenacità nello studio: ottenne per merito un posto gratuito nel Reale Collegio delle Provincie e percorse brillantemente i corsi di medicina e chirurgia nella Regia Università di Torino, conseguendo nell’anno 1860 la laurea con pieni voti e con lode. Nel periodo degli studi fu ammesso come allievo interno nell’Ospedale di San Giovanni di Torino e dopo avere brillantemente superato l’esame di operazioni, ottenne il posto di assistente nella Clinica chirurgica di quella illustrazione scientifica che fu il professore Riberi. Sotto la guida sapiente di tanto Maestro egli ebbe campo di perfezionarsi nel ramo della chirurgia, che singolarmente prediligeva, e per cui dimostrava una speciale attitudine. Ma smanioso forse di più liberi orizzonti e desideroso di esplicare tutta la sua attività scientifica in campo più vasto, lasciò la clinica del Riberi e si arruolò nel servizio della Regia Marina, come medico militare. Prestò l’opera sua apprezzatissima in ospedali militari, fece alcuni viaggi di circumnavigazione ed ebbe pure la somma ventura di poter dare il suo braccio in difesa della patria.
Partecipò egli infatti alla campagna militare dell’anno 1866 ed a bordo della nave guerresca Maria Pia assistè all’infausta giornata di Lissa, che tanto funesta doveva riescire per l’onore dell’armi italiane. Tutti ricordano con quale animo generoso con quanta onesta e convinta parola nel riandare a quell’epoca dolorosa egli pubblicamente difendesse la memoria dell’ammiraglio, a cui la storia ha serbato un severo, implacabile giudizio.
Nel servizio della Regia Marina il dottore Perassi seppe elevarsi a gradi superiori, fu promosso a capitano medico e si meritò due onorifiche distinzioni, la croce di Cavaliere dei Ss. Maurizio e Lazzaro e quella della Corona d’Italia.
Dopo questo periodo di vita così agitata così fortemente operosa, benché gli spettassero più alti gradi nella gerarchia militare sentì il bisogno di volgere la sua attività in altro campo di esercizio professionale, se non così brillante, certamente più umanitario.
Nell’anno 1868 ottenne per concorso il posto di medico primario dell’Ospedale e della Congregazione d’Intra e tale posto egli occupò degnamente per lo spazio di ben trentadue anni, spiegando in questo lungo periodo di tempo tutto il suo valore professionale specialmente nel difficile campo della chirurgia e prestando preziosi, onorati servigi a vantaggio delle classi meno abbienti. Del chirurgo aveva le doti precipue, essenziali, cioè, profonda conoscenza del processo morboso; percezione pronta e sicura dell’atto operativo più opportuno; abilità non comune nel tecnicismo operativo. Numerose sono le operazioni chirurgiche da lui felicemente ed arditamente compiute nell’ospedale, nella pratica privata che gli valsero onori meritati, fama lusinghiera e che resero l’opera sua ricercata apprezzatissima. A tanta valentia scientifica egli accoppiava una bontà eccezionale dell’animo, uno spirito costante di abnegazione, di sacrificio di sé, della sua persona, della sua salute, nell’affrontare disagi e fatiche pur di portare anche in luoghi lontani, anche in stagione inclemente, e in ora meno opportuna l’opera sua pietosa e sapiente a vantaggio dei sofferenti. Amato, stimato, ricercato da larga e scelta clientela egli si prodigò con pari zelo a vantaggio tanto di chi largamente poteva compensarlo, quanto di chi non poteva dirgli che un grazie o serbagli un affettuoso ricordo. Intese nel senso più nobile della parola il sentimento di solidarietà verso i colleghi e specialmente ai meno provetti ed all’inizio della loro carriera, fu largo di aiuto, di consiglio, d’incoraggiamento; per tali doti eccezionali seppe nel ceto medico raccogliere larga messe di simpatie ed ebbe l’onore di vedere apprezzata la sua valentia scientifica, da un uomo illustre per fama e per dottrina, dal professore senatore Bottini, che lo predilesse con sincera amicizia.
Amò Intra come una seconda patria e prestò l’opera sua zelante, intelligente a vantaggio della pubblica cosa. Fu più volte consigliere ed assessore del Comune e tenne per lunghi mesi onoratamente la carica di Pro sindaco [dal 23/3/1901 al 19/9/1902] e per lungo periodo di tempo fu pure consigliere stimato di quell’importante istituto di credito che è la nostra Banca Popolare. Amministratore sincero, entusiasta della bellezza insuperabile dei nostri monti, caldeggiò colla parola e coll’esempio il loro rimboschimento. Fu per la geniale iniziativa di lui che la sezione Verbano del Club Alpino dedicò alla memoria dell’eroe dei due Mondi e della Città Eterna l’impianto di due boschi di abeti e di pini sulle falde del monte Cimolo, al disopra dell’ameno paesello di Bèe. Tutti noi lo abbiamo visto salire con giovanile e baldo entusiasmo le erte cime di quel monte e piantare di sua mano le tenere pianticelle destinate ad abbellire ed a rinverdire quelle brulle pendici.
Acquistata col lungo esercizio professionale una ben meritata agiatezza, egli sperò di passare gli ultimi anni della vita sua in dolce riposo, tutto dedicandosi alla famiglia che lo circondava d’un immenso affetto; gli fu serbato l’orgoglio e il conforto di vedere le sue dilette figliuole l’una salire a nozze auspicate e l’altra dar fede di sposa ad un collega simpatico, stimato e tanto caro al suo cuore [la figlia Penelope sposò Giovanni Battista De Lorenzi, medico poeta dialettale].
Ma la felicità non è cosa di quaggiù; un lento inesorabile malore venne da alcuni mesi a minare la sua fibra logora per lunghe, diuturne fatiche. Se la mente conservava ancora tutta la sua lucidità e l’antico vigore, il suo povero corpo era ormai domo e vinto dal male spietato, contro cui invano lottarono con affetto trepidante la dolce e buona compagna della sua vita, i suoi figli, i colleghi.
Ieri mattina, dopo breve agonia egli chiuse per sempre gli occhi al sonno eterno.

La Vedetta, 13 gennaio 1903

[Leonardo Parachini]